The Stones of Temple Hill
(about rolling stones)
“Volevano diventare la
migliore rhythm and blues
band di Londra, ma divennero
la più grande rock’n’roll band
di tutti i tempi”
Prima parte
L’età della pietra
1.
Adolescenza
Dartford aveva prospettive davvero avvilenti per la gioventù che ci viveva. Cittadine come quella del Kent sembravano lo specchio della Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale. Gli adulti combattevano la noia nei circoli, dove giocavano a bridge e passavano ore a chiacchierare. Ai ragazzi non rimaneva che godere di quelle ore di libertà dovute all’assenza dei genitori per provare ad assecondare il fantastico mondo interiore che li animava. I danni causati dai bombardamenti avevano costretto il comune a una massiccia edificazione che aveva lasciato poco dei caratteristici borghi antichi medievali. Il centro del paese era costellato dalle caratteristiche costruzioni alte due piani che esprimevano uno stile semplice e gradevole, ma privo di bellezza. Le uniche note colorate in mezzo a quel grigiore, erano le vivaci tinte delle facciate dei negozi. Per ritrovare tracce di architettura georgiana o vittoriana bisognava aggirarsi tra gli edifici di rilevanza storica. L’High Street di Dartford evocava vagamente il far west, e forse era una delle ragioni per cui i ragazzini volevano trasvestirsi tutti da cowboy. Non era raro vedere, durante cruenti e fantomatici mezzogiorni di fuoco, sparatorie a salve che facevano stramazzare sul selciato il piccolo Keith Richards nei panni del cattivo. Quando l’imberbe sceriffo della contea lo catturava trascinandolo verso la gattabuia senza mettergli le manette, lo spietato Keith the Kid preferiva sporcarsi e sorbirsi una ramanzina della madre Doris pur di tenersi sulla testa il cappellone nero a falde larghe. Gli amici sapevano bene che il motivo reale era che voleva tenere ben nascoste le sue grandi orecchie a sventola per evitare di essere chiamato Dumbo. Spettatore interessato dello scontro tra buoni e cattivi era un coetaneo che vendeva gelati con il suo carrettino, si chiamava Michael Jagger, detto Mike. Anche lui si sarebbe unito volentieri ai suoi amichetti ma glielo impedivano il senso per gli affari e l’idea di impolverarsi. Era un ragazzino sorridente, ed era l’unico a non prendere in giro Keith. Non si frequentavano assiduamente ma quando capitava di incontrarsi nel cortile della scuola, o altrove, si fermavano a parlare volentieri, e spesso Mike gli faceva pagare il gelato a un costo inferiore sapendo che Keith viveva nelle case popolari. Spesso si incontravano nella periferica Temple Hill con gli altri ragazzini per giocare a pallone o in mezzo agli scheletri dei palazzi del complesso residenziale che stava sorgendo. Si divertivano un mondo a giocare, non da meno a fantasticare.
<<Secondo te perché diamine chiamano Temple Hill questo posto del cazzo se non c’è un tempio nel raggio di dieci miglia, ma solo una collina? >> chiese Keith
<<Forse una volta c’era, magari lo hanno buttato giù per costruire questi edifici, vallo a sapere >> azzardò Mike mentre si guardava intorno cercando una spiegazione plausibile.
<< Non doveva essere un granchè questo tempio se lo hanno distrutto per fare questo schifo>> replicò Keith. Erano molto diversi ma si piacevano. Mike era chiaro di carnagione, aveva la faccia pulita da bravo ragazzo e una bocca larga piena di denti che lo rendevano buffo. Keith era pallido e magro, con i capelli neri che gli davano l’aspetto torvo. In realtà aveva un carattere tenero e la solitudine accentuava la sua timidezza. Girava con la bici portandosi in tasca Gladys, un criceto, esplorando luoghi che stuzzicavano la sua curiosità. Le scorciatoie per andare a scuola, attraversando la collina, gli avevano fatto scoprire un’umanità diversa da quella che conosceva. Si spostava abilmente tra gli acquitrini e le brughiere disseminate lungo la strada come trappole. Era diventato bravo a non infangarsi, per evitare di arrivare in classe lercio come avveniva i primi tempi. Incontrava spesso vagabondi, fuggiaschi, e anche qualche bandito che rapinava malcapitati forestieri. Le vittime preferite erano gli amanti clandestini perché non potevano denunciare di essere stati derubati. Quelle scene spaventavano Keith ma non riusciva a farne a meno. Quelle emozioni erano le uniche che offriva la città. Talvolta coinvolgeva qualche amico, per condividere l’avventura ma anche per attenuare la paura. I passatempi di Mike invece erano molto più tranquilli. I Jagger per sopperire alla mancanza di una figlia gli avevano sobbarcato mansioni tipicamente femminili, quali lavare i piatti o andare nei negozi a comprare quello che mancava in casa. Come se non bastasse a Mike era capitato un padre istruttore di ginnastica, ed era obbligato a un continuo esercizio fisico nel giardino della villetta a schiera attrezzata come una vera palestra. I vicini vedevano spesso il ragazzo arrampicarsi sulle corde insieme al fratello minore. A Mike seccava solo che le ragazze lo chiamavano piccolo Tarzan, ma non si lamentava e non creava mai problemi, soprattutto con lo studio. Eccelleva in quasi tutte le materie ed era educato, ragion per cui gli insegnanti chiudevano un occhio sulle sue frequenti imitazioni che prendevano di mira proprio il corpo docente.
La solitudine attanagliava Keith come in una morsa. La madre Doris ne era consapevole ma il bisogno la costringeva a passare molto tempo fuori casa per lavoro. Cercava di rimediare assecondando i capricci del figlio, compreso quello di andare a trovare spesso il nonno Gus. Era un tipo strano ma Keith adorava passeggiare con lui. Gli insegnava un sacco di cose senza farlo annoiare. Il vecchio Gus aveva carattere, e anche quel pizzico di follia che gli aveva permesso di sopravvivere in una famiglia composta da sole donne. Era un nonno intelligente e un abile suonatore di chitarra. Ne aveva una appesa nel salone di casa come se fosse un’opera di Duchamp. Keith l’ammirava con la serietà di un visitatore a un museo. A volte non resisteva alla tentazione di prenderla e strimpellava qualche corda. Non lo sapeva ma era caduto nel tranello del nonno, che da uomo di mondo, dimostrava di saperci fare anche come educatore riuscendo a stuzzicare la curiosità del nipote. Caduto quel tabu, Keith prese coraggio e chiese di imparare le prime basi della chitarra acustica. La prima lezione consisteva nell’ascolto di un classico del Flamenco, la Malaguena.
<<Se imparerai a suonare questa- diceva al nipote mentre eseguiva l’accordo - potrai suonare qualsiasi cosa>> diceva il vecchio. Una promessa che scatenava quel sorriso timido che faceva apparire Keith persino carino. Ci provava a suonare nonostante la chitarra fosse ingombrante e le dita gli facessero male a furia di provare ad artigliare quei cordoni elastici e metallici per apprendere l’arpeggio. A volte Keith era sul punto di rinunciare, il nonno però non gli dava tregua. Gli ricordava sempre che le ragazze sarebbero cadute ai suoi piedi quando sarebbe diventato un chitarrista .
<<Per quale motivo credi che abbia imparato a suonare il trombone,l’arpa, la chitarra e chissà se dimentico ancora qualcosa. Eh,me lo dici?>> chiedeva nonno Gus con un sorrisetto mefistofelico .
<<Dammela, lasciami riprovarci>> lo implorava rassegnato Keith. Riprendeva lo strumento che gli ricopriva il torace e ci metteva maggiore impegno. Il vecchio se la spassava e rincarava la dose.
<<E’ proprio così figliolo, ti cadranno ai piedi le pollastrelle, e poi ti dirò, hai anche l’aspetto del suonatore di flamenco: occhi scuri e profondi, magro e affamato, vedrai >>sogghignava il nonno.
Keith premiava la solerzia del suo Faust del Kent riuscendo, a furia di esercitarsi, a cavare dallo strumento un suono che cominciava a rasentare una melodia. La chitarra era diventata la sua dolce ossessione. Non si accontentava più di suonarla sporadicamente, quando andava da nonno Gus, ne voleva una tutta per sé. Doris avrebbe voluto accontentare il figlio ma le ristrettezze economiche non avevano cuore. Il marito Bert si spezzava la schiena facendo il pendolare tra Dartford e Londra per andare a lavorare come commesso in un grande magazzino di elettrodomestici. Il senso di colpa verso il figlio spinse Bert a regalargli una delle radio che vendeva ai clienti. Cercava di colmare le lacune come padre, e a compensare la sua scarsa propensione alla loquacità, soprattutto quando si trattava di relazionarsi al ragazzo, come chiamava solitamente Keith. Quella radio con l’antenna non catturava l’interessare di Keith. Si giustificava con i genitori lamentando che l’antenna era troppo lunga e si impigliava nei lampadari e nelle tende quando cercava la frequenza. Una notte insonne però lo costrinse a riprenderla per tentare di farla funzionare. La radio più che trasmettere musica sembrava gracchiare. Le stazioni radio erano di gran lunga inferiori al numero dei radioamatori che vanificavano i suoi sforzi . Quei sconosciuti che navigavano via etere nelle ore piccole parlavano solo di sciocchezze. A poco a poco quell’avvolgimento vorticoso della manopola della radio con cui Keith rallentava e accelerava come se dovesse trovare la combinazione giusta per aprire una cassaforte, funzionò davvero e mostrò un vero tesoro nascosto: Heartbreak Hotel.
<<L’ha cantata per voi Elvis Presley da Tupelo, Mississippi>> ripeté un paio di volte l’annunciatrice di Radio Luxembourg. Per Keith fu un’autentica folgorazione, il segnale, la scossa, svegliandolo da una sorta di torpore letargico. L’ultima volta che un’energia simile fu avvertita in quella casa fu durante un bombardamento della Lutwaffe. Bert Richards e Doris Dupree erano così travolti dalla passione quella volta che anziché mettersi in salvo scappando nel rifugio detonarono una serie di embrioni da cui sarebbe nato il loro primo e unico figlio. Elvis, l’affascinante demiurgo del Mississippi aveva però intenzioni diverse rispetto al disegno di morte pianificato dall’orco viennese. Presley si era edotto ascoltando i pionieri del Delta Blues evolvendo uno stile che era nell’aria, non aveva travisato i testi filosofici di Nietzsche come aveva fatto il famigerato Adolf. Il rock’n’roll spezzò le catene che imprigionavano i giovani che per la prima volta si rendevano conto della carica eversiva della propria generazione. Keith scoprì la musica e con essa iniziò la sua rivoluzione adolescenziale. Comprava più dischi che poteva, e se mamma Doris non elargiva abbastanza soldi per soddisfare la sua ingordigia di vinile, Keith non esitava a derubarla, attingendo alla morale di Robin Hood che gli suggeriva di nutrire lo spirito povero dentro se stesso. L’ultima e perentoria richiesta di Keith fu una chitarra. L’aveva adocchiata in una vetrina di un negozio di strumenti in centro. Doris non si faceva mettere i piedi in testa ma non riusciva a non viziare Keith, anche se sapeva di trasagredire i dettami educativi che lei e Bert avevano ratificato. Doris non aveva danaro a sufficienza per accontentare il figlio ma era toccata dal fatto che passasse sempre più tempo da nonno Gus per suonare la sua chitarra. Doris riuscì a trovare un prestanome per ottenere un finanziamento rateale che le permise di acquistare una chitarra Rossetti. Keith ne fu così felice che ci dormiva. Si esercitava molte ore al giorno migliorando visibilmente la tecnica. Quando tornava a casa Doris lo sentiva suonare e si riempiva di orgoglio. Keith era diventato un jukebox domestico, pronto ad accontentare le richieste della madre, la sua prima spettatrice nonché la sua critica più severa.
Il cambiamento culturale aveva coinvolto anche Mike. Con la pubertà aveva assunto quell’aspetto sornione che avevano i felini nei i primi anni di vita. Appariva come un giovane goffo e fuori dal comune. Aveva un fascino latente ma vagamente femmineo, o forse troppo diverso per i canoni estetici fine anni cinquanta. Dopo la sua prima e infantile attività di gelataio, Mike continuò a darsi da fare per rimpinguare la risicata paghetta di papà Joe. La crescita non gli aveva fatto perdere il senso degli affari, e spesso univa l’utile al dilettevole. Grazie al suo lavoro all’ufficio postale del paese riusciva a fare grossi ordinativi di dischi a una casa discografiica di Chicago, la Chess Records. Controllava personalmente i plichi che arrivano dagli Stati Uniti. Il blues era il suo genere preferito, ma non gli dispiaceva nemmeno il rock’n’roll che andava per la maggiore. Il contenuto lascivo delle canzoni di Robert Johnson e Muddy Waters svezzavano, in un certo senso, il suo istinto predatorio. I testi cantati dai bluesman con maliziose licenze erano fonte di apprendimento. Little my red rooster e Dust my broom erano delle allusioni irresistibili. In realtà tutto il repertorio blues trasudava simili esperienze, che i loro cantori avevano vissuto in prima persona, mentre il rock’n’roll descriveva,dopotutto,bravate di ragazzi alle prime armi. Situazioni che vedevano spesso adolescenti alle prese con i primi approcci amorosi sull’automobile rubata al padre. Problematiche innocentemente borghesi. Il blues aveva invece radici diverse, irrorate con il sudore del lavoro nei campi di cotone e dal sangue che talvolta gli schiavi dovevano versare per essersi macchiati del crimine di avere la pelle nera. L’esistenza dei bluesman era intrisa dei retaggi di quell’humus che quasi sempre li rendeva dei personaggi maledetti, che non riuscivano a scrollarsi di dosso un destino di sofferenza. Il rock di rivoluzionario aveva il ritmo e un pubblico che poteva permettersi di andare a vedere i loro concerti e a comprare i dischi. Il blues nasceva nei campi durante il lavoro massacrante e veniva apprezzato inizialmente nei Juke joint, unici luoghi di ritrovo dove era permesso anche alle persone di colore di bere e divertirsi. Con il tempo però anche il blues cominciava a essere risarcito moralmente ed economicamente, e fu grazie al rock.
Il giovane Jagger salutò il primo successo sessuale in una casa di igiene mentale dove affondò il suo fascino acerbo su una matura e generosa infermiera di Birmingham. Dopo quella torrida estate trascorsa nel manicomio comunale, seguirono altre vittime, più o meno innocenti. Mike non era turbato dall’essere circondato da personalità disturbate, soprattutto se si trattava di pazienti belle. Quel gradimento non sfuggì al bigotto direttore del centro che, senza dare scandalo, eliminò il volenteroso Jagger dalla lista dei ragazzi che lavoravano come portantini nei periodi in cui nella casa di cura scarseggiava il personale. Quando Eva Jagger venne a conoscenza di quella storiaccia che riguardava il suo Mike , evitò di dirlo al marito per non urtare la sua sensibilità. Eva era più abituata alle pulsioni sessuali del figlio, sin da quando lo scoprì tredicenne portare a casa le ragazzine in loro assenza. Mike faceva indossare alle amichette la biancheria intima che Eva vendeva alle signore di Dartford. La sua tattica consisteva nel barattare reggiseni e mutandine con baci sulla bocca e palpeggiamenti. Ma il peggio doveva ancora arivare per Eva. Una volta infatti sorprese Mike stesso indossare l’intimo mentre si ammirava davanti a uno specchio. Non fece menzione nemmeno di questo al marito Joe, ma ne parlò con uno psichiatra che la rassicurò a riguardo. Il luminare addusse l’accaduto alla curiosità sessuale tipica di quella fase adolescenziale. Intuendo i timori della signora Jagger sull’identità sessuale del figlio, specificò che quel travestimento era un palese episodio esplorativo del figlio per conoscere l’oggetto del desiderio. A riprova lo testimoniavano le sue mire.
In Inghilterra per oltre un decennio ogni giorno era stato come il precedente, e in tutte le persone c’era la consapevolezza che il domani sarebbe stato lo stesso. C’era stata una lenta e dolorosa ripresa economica dopo il secondo conflitto mondiale ma il paese, forte di una cultura conservatrice, resisteva in modo naturale alle insidie rappresentate dal cambiamento epocale, soffocando la gioventù con un perbenismo strisciante. Quell’isolamento endemico non aveva tenuto conto che le note musicali viaggiavano libere nell’aria a velocità della luce e non incontravano resistenza. I ragazzi erano cambiati e rivendicavano uno spazio che neppure l’autorità genitoriale poteva negargli.
2.
L’incontro fatale
Un freddo lunedì di gennaio alla stazione di Dartford gli impiegati comunali recuperavano le ultime luminarie natalizie. Gli studenti che aspettavano il treno sulla piattaforma numero 2 assistevano impotenti all’indegno spettacolo che metteva fine alle festività. Infreddolito e più cupo del solito, Keith controllava l’orizzonte ferrato e le persone che arrivavano lungo il binario. Erano da poco passate le sette del mattino ma il mondo già era all’opera. Nell’atto di asciugarsi per l’ennesima volta il naso che colava gelo sciolto, Keith scorse una faccia conosciuta. Era un suo coetaneo, intabarrato con un cappotto scuro fino alle ginocchia e con una sciarpa in tinta che gli coprova collo e bocca. Aveva una pila di dischi sotto il braccio legati con una cordicella di canapa. In testa portava un berretto irlandese come il suo e sfoggiava degli stivali con le suole gommate nere. Gli stessi che accendevano di desiderio Keith tutte le volte che passava davanti alla vetrina del negozio di scarpe su Market Steet.
Keith si avvicinò di quel tanto per essere sicuro e fissò negli occhi il ragazzo infagotatto il quale si era accorto di essere guardato. Ricambiò la sua curiosità sorridendogli, scoprendo così la bocca.
<<Hey, ciao, sei Mike il figlio dell’insegnante di educazione fisica, giusto?>> disse Keith mentre gli dava il cinque col guanto in segno di saluto.
<<Si, sono io, ma adesso mi faccio chiamare Mick>> disse cordialmente. Keith ci pensò su.
<<Beh, mi piace!! Suona meglio di Mike amico. E’ più fico! >> ammise Keith, cercando di sbirciare il pacco di dischi che il coetaneo custodiva gelosamente.
<< Ti avevo visto in quel programma in televisione dove facevi gli esercizi di ginnastica con tuo padre, un vero schiavista amico. Eravamo io e Doris, che poi sarebbe mia madre, e ci siamo detti : ehi , ma quello non è il tizio che vive in quella villetta da ricchi? E ora eccoci qua>> disse Keith senza staccare lo sguardo dai dischi sotto il braccio di Mick.
<< Sai mio padre ci teneva che fossimo io e mio fratello a mostrare i progressi dei suoi insegnamenti, ma non è stato un cattivo affare, perché un sacco di ragazze che nemmeno mi filavano, da quando mi hanno visto in televisione mi fermano e si mettono a chiacchierare con me >> confidò Mick suscitando la genuina invidia di Keith.
<< Sei fortunato amico>> sospirò Keith <<caspita è un pezzo che non ci vediamo>>riflettè.
<< Eh già, si dice che il mondo è piccolo ma sembra che Dartford sia più grande>> aggiunse Mick con ironia. Si sorrisero. Keith era sul punto di chiedergli il permesso di guardare i dischi. Si era stancato gli occhi a furia di sbirciare. L’assordante e minaccioso fischio del treno che arrivava lo distolse dal proposito. Il gelo continuava tormentare il suo naso di Keith che provò ad asciugarselo con la manica del soprabito. Mick se ne accorse e gli offrì il fazzoletto pulito e ripiegato che aveva in tasca. Keith rimase colpito dal gesto, perché nonostante l’aspetto curato quel ragazzo non aveva esitato a darglielo. Rimase per qualche istante senza parole. Il treno con destinazione Londra rallentò la sua marcia emettendo altri due fischi per allertare i pendolari sulla piattaforma. Keith e Mick salirono mischiandosi alla folla arrancante. L’affluenza straordinaria costrinse molta gente a rimanere in piedi. Mick e Keith afferrarono i corrimano sopra le loro teste.
<<Tu, dove vai?>> chiese Mick.
<<A Sidcup, istituto artistico, parcheggio di zoticoni come me, e tu?>> rispose schietto Keith.
<<Londra, a fare quello che i secchioni sanno fare meglio, vale a dire economia >>.
<<Già, lo immaginavo. Posso dare un’occhiata a quelli ? >> domandò Keith indicando i dischi.
<<Ah, questi, certo>> rispose Mick compiaciuto. Sollevò i dischi e glieli porse. Keith sfidò l’equilibrio precario dovuto agli scossoni del treno pur di afferrarli. Gli bastò leggere sulla copertina i nomi di Chuck Berry e Muddy Waters per capire di aver trovato molto più di un conoscente. Una strana sensazione fece svanire a Keith il suo senso innato di solitudine. I due ragazzi ricordarono di quando giocavano insieme da piccoli, all’epoca in cui erano anche vicini di casa. Mick abitava in Denver Road mentre Keith in Chastillan Road. Era nel periodo in cui frequentavano la Wentworth School. Spesso erano accanto sulle foto ricordo di fine anno scolastico. C’era sempre stata una simpatia reciproca tra Mick e Keith, anche se si erano persi di vista, accadeva a tanti ragazzi durante la crescita. Ritrovarsi dopo anni e scoprire di avere una passione in comune forte come il blues, li fece concordare il loro primo appuntamento da adulti. Fissarono per il sabato successivo.
Il Carousel era un locale fornito di Jukebox e frequentato da ragazze intenzionate a divertirsi. Keith entrò con andatura da Teddy boy e con un look che richiamava vagamente Marlon Brando nel Selvaggio. Mick aveva l’aria di spassarsela. Era mente al centro dell’attenzione di quel gruppetto di amici. Keith riconobbe nella comitiva uno studente della sua scuola, Dick Taylor. Si scambiarono qualche frase di circostanza. Keith strinse la mano prima a lui poi a tutti gli altri. Le anonime ragazze con i capelli ad alverare non sembravano particolarmente interessate dal suo arrivo. Sebbene simulasse disinvoltura, Keith era intimidito dalla differenza sociale. Eluse la prima domanda che gli fecero solo perché gli chiesero dove abitasse. Si accese una cicca di sigaretta con goffaggine dicendo che si trovava da quelle parti e aveva visto Mick. Mick si stupì di quella bugia ma gli tenne il gioco trattandolo con riguardo. La conversazione scivolò verso la musica e Keith riprese terreno dando dimostrazione della sua competenza. Il fatto che suonasse la chitarra destò maggiore interesse. Tra una chiacchiera e l’altra i ragazzi azzardarono l’idea di mettere su una band.
Da quel giorno la frequentazione tra i due amici ritrovati divenne più assidua. Keith andava ad ascoltare dischi a casa di Mick. Dopo l’ascolto di qualche canzone Mick non resisteva alla tentazione di cantare imitando lo stile ululante di Howlin Wolf. Keith ci vedeva del potenziale nella sua voce. Provava a stargli dietro accompagnandolo alla chitarra. Eva Jagger un giorno stava per entrare in camera con tè e biscotti, ma trovando il risultato canoro del figlio esilarante, dovette tornare indietro. Le ci volle tutto il suo autocontrollo per arrivare in salotto salvando il servizio di te in porcellana. Non appena messo in salvo il vassoio cominciò a ridere piegandosi in due sotto lo sguardo interdetto del marito che leggeva. In lontananza si sentiva la voce querula di Mick. Joe vedendo la moglie sbellicarsi, e sentendo il figlio cantare a squarciagola, chiese se per caso il ragazzo soffrisse di qualche patologia alle tonsille.
Qualche tempo dopo a quelle riunioni musicali si unirono in pianta stabile anche Dick Taylor e Bob Beckwith. Suonavano i pezzi che gli piacevano di più pescando dai dischi blues che si scambiavano. Erano collezionisti incalliti. Si organizzavano suonando a turno a casa di ognuno. La signora Beckwith era la più incoraggiante. Il suo giudizio lusinghiero riguardava soprattutto Mick. Gli ripeteva spesso che la sua voce aveva qualcosa di particolare, non sapeva spiegare cosa ma la trovava speciale. La padrona di casa si dilungava anche sulla gestualità che usava quando cantava. Quell’agitarsi, improvvisando balletti, incurante di essere giudicato, a suo avviso dimostrava personalità. La signora colse nel segno poiché Mick non si imbarazzava affatto se qualcuno era presente quando si esibiva. Al contrario dava il meglio di sé davanti a un piccolo pubblico, anche se si trattava di involontari spettattori domestici. L’unica critica della signora Beckwith riguardava certe movenze di Mick che secondo lei andavano studiate meglio. Mick emanava un certo fascino,come quello di certi attori di cinema capaci di ipnotizzare gli spettatori. Quello che gli mancava era un copione scritto e un regista che gli dicesse come muoversi.
Le sessioni blues casalinghe divertivano i ragazzi. Convennero tuttavia che senza una batteria non sarebbero mai stata una band a tutti gli effetti. Una riflessione da cui scaturì l’idea di reclutare un altro amico, Alan Etherington. Non possedeva una vera batteria ma dei bonghi che gli avevano portato da un viaggio in Africa i genitori. La vera mira dei tre giovani fanatatici di blues era anche il registratore che aveva l’amico. Alan era un giovane annoiato che non vedeva l’ora di fare qualcosa di eccitante, così quando gli proposero di suonare con loro accettò mettendo a disposizione anche il garage di casa.
La costante pratica dei quattro amici stava migliorando le loro prestazioni. Erano dei ragazzi intelligenti con una spiccata propensione all’apprendimento. Il vero problema era la mancanza di uno stile, il che collocava quelle esecuzioni tra il dilettantesco e l’amatoriale. Loro stessi ne erano consapevoli nonostante fossero pervasi di entusiasmo. Le conversazioni che facevano tra una canzone e l’altra gli fecero capire che il rispetto che avevano per il blues trasformava si in una sorta di timore reverenziale che banalizzava le esecuzioni. Senza abbattersi cominciarono a fare qualche accorgimento. Cominciarono col dare un nome alla band. Little Boy Blue & Blue Boys, era abbastanza evocativo per aspiranti puristi della musica del Delta. A seguire si misero alla ricerca di locali nei dintorni di Dartford dove poter suonare dal vivo. Poiché Mick aveva la faccia più tosta dei compagni si incaricava di contattare telefonicamente i gestori o a passare di persona. Ma veniva trattato come un pivello se andava bene, tutte le altre volte si sentiva sbattere le porte in faccia. Con tipica elasticità giovanile i ragazzi non si abbatterono seguitando a provare nei loro ormai abituali appuntamenti domestici. Joe Jagger era il padre che meno comprendeva un interesse così acceso per un genere come il blues. Avrebbe preferito ascoltare musica classica ma sopportava per la serenità che ne ricavava sapendo i ragazzi al sicuro a casa.
L’idillio tra i componenti dei Blue Boys fu turbato solo a causa di una festa da cui venne escluso Keith. Mick aveva sempre saputo che consideravano Keith una specie di teppistello dei bassifondi ma non avrebbe mai pensato che i suoi amici arrivassero a tanto. Mick era contornato da coetanee quando seppe che non avevano invitato Keith. Si infervorò così tanto che non riuscirono a dissuaderlo dal proposito di andarsene. Non accettava che si facesse ostracismo nei confronti del compagno solo perché apparteneva alla classe operaia. Rammentò agli amici che i bluesman erano considerati dalla società americana dei paria. Da quel giorno tutti capirono quanto tenesse a Keith.
Dopo aver abbandonato il party Mick si presentò sulla Spielman Road bussando alla porta dei Richards. Mick aveva con sè dei dischi nuovi di blues. Quando Keith aprì Mick glieli mostrò.
<<Che ne diresti se li ascoltassimo insieme?>> propose Mick
<<Ma dove diavolo prendi tutta questa roba paradisiaca?>> disse Keith prendendo i dischi dalle sue mani. Mentre entravano in casa prese ad annusarli come se fossero qualcosa da mangiare.
<<Un tizio che conosco mi ha detto che ne procurerà degli altri tra qualche giorno>> aggiunse Mick seguendolo. Si tolse il cappotto e si guardò intorno per vedere se c’era qualcuno.
<<Un tizio? vorrai dire uno spacciatore di bontà, fottuto Mick che non sei altro. Hai sempre qualche coniglio da tirare dal tuo cilindro. Cristo santo c’è anche Jimmy Reed>> aggiunse Keith con entusiasmo. Si divertirono passando il pomeriggio in camera ad ascoltarli. Keith ispirato dalla musica prese la radio che gli aveva regalato il padre e mostrò a Mick che l’aveva attrezzata come amplificatore della sua chitarra elettrica Hofner. Gli fece sentire l’accordo di Johnny B. Goode di Chuck Berry. Il suono che ne scaturiva era ruvido ma funzionava. L’unico inconveniete era un odore di bruciato che fuoriusciva dalle prese elettriche.
Verso la metà di maggio i due amici partirono per le distese sabbiose di Beesands, nel Devon. A Mick era bastato dire ai genitori che sarebbe partito con i Richards per una gita al mare. Doris e Bert avevano preso in affitto una casetta panoramica per tentare di superare il brutto momento che stavano attraversando. Alla base della crisi coniugale c’era l’insoddisfazione di Doris che si sentiva trascurata. Era una donna intelligente e piena di energia, e provava un certo disagio nei confronti dell’apatia del marito. Lo rimproverava di trascorrere le poche ore con lei riposandosi o a leggere il giornale. Svanita la passione iniziale tra loro erano riemerse le differenze caratteriali rendendoli di fatto due estranei.
La pungente aria primaverile rendeva proibitiva l’idea di un bagno di mare. Mick e Keith si arrotolarono i pantaloni fin sopra le cosce accontentandosi di immergere i piedi per una passeggiata sulla battigia. Sugli arenili stretti e desolati si incontravano poche persone, perlopiù gente del luogo di mezz’età. I due amici camminavano provando una certa frustrazione per il fatto di non riuscire a incontrare delle ragazze. Dopo una decina di miglia erano esasusti. Si sedettero su una delle due scogliere bianche che chiudevano quel tratto di mare formando una piccola baia. Non mancava molto al tramonto e Keith, in un’inconscia associazione, confidò all’amico il timore che i genitori stessero per lasciarsi. Mick era stato educato a vedere la famiglia come un legame indissolubile e forte di quella convinzione, lo rassicurò dicendogli che spesso anche i suoi litigavano. La madre Eva aveva un carattere autoritario e spesso esasperava la pazienza del padre Joe. Era una bugia ma funzionò. Keith conosceva l’austerità della signora Jagger ma non approfondì la rivelazione. Gli bastava quanto aveva sentito perché dopotutto quello che voleva era solo un pizzico di motivazione per non deprimersi. Quando il sole scomparve oltre l’orizzonte marino recuperarono le scarpe e si apprestarono a fare ritorno. Una leggera brezza li colse impreparati e si misero a correre per scaldarsi, nonostante fossero stremati. Arrivarono vicino una fila di casette bianche con il tetto spiovente. Videro Doris affacciata a una delle finestre che fumava. Aveva un’espressione triste. Appena scorse i ragazzi l’umore di Doris cambiò immediatamente. Li accolse in casa offrendogli due bottigliette di coca cola. Keith si adagiò su un letto singolo mettendosi a strimpellare la chitarra. Provava a coinvolgere Mick, occupato a lamentarsi con Doris .
<<Non c’è una ragazza nemmeno a pagarla d’oro da queste parti>> si rammaricò Mick mordendosi nervosamente le labbra.
<<Perché non andate in paese? C’è un locale molto carino. Ci siamo stati qualche volta io e Bert e abbiamo incontrato tanta bella gente>> disse Doris con il consueto ottimismo.
<<E le ragazze le troviamo?>> chiese ansioso Mick.
<< Santo cielo Mick, si ci sono anche le ragazze. Lo dici come se non ne vedessi una da chissà quanto tempo >> rispose Doris.
<<Mamma siamo stanchi abbiamo camminato tutto il giorno>> protestò Keith tra un accordo e l’altro.
<<Se ricordo bene i clienti possono cantare e suonare>> rilanciò Doris aspettando una loro reazione.
Qualche minuto dopo Mick in strada trascinava quasi di forza Keith e la sua chitarra. Lungo il tragitto videro il padre di Keith che chiacchierava con delle persone. Oziava sulla veranda di una casa a ridosso del villaggio. Bert salutò i ragazzi sollevando la mano che stringeva la pipa. Il signore più anziano, con l’aria da marinaio in attesa di un imbarco, chiese ai ragazzi dove andavano di bello. Quando sentì che erano diretti al pub in paese a suonare, li incitò urlandogli di non farsi scoraggiare. Alla fine della salita asfaltata apparve la sagoma del Beesands Inn Pub. L’edificio bianco e liscio con cornici rosse era in linea con lo stile semplice del Devon. Il tendone esterno, le sedie e i tavolini posizionati frontalmente denotavano l’influenza dei bistrot francesi. All’interno prevaleva l’anima anglosassone dei pub, con tanto di pareti e pavimenti di legno che sottolineavano ogni passo degli avventori con uno scricchiolio. In un angolo a ridosso dei tavolini era stato montato una pedana dove i clienti con velleità artistiche potevano esibirsi. Il proprietario spiegò a Mick che era una sorta di Hyde Park Corner musicale. Mick non resistette alla tentazione e costrinse Keith ad accompagnarlo con la chitarra acustica. Keith per nulla al mondo avrebbe fatto una cosa del genere ma Mick aveva il potere di riuscire a coinvolgere chiunque. Salirono sulla pedana parlottando sotto lo sguardo incuriosito della gente. Mick provò il microfono mentre Keith accordava la chitarra. Si scambiarono uno sguardo d’intesa e attaccarono con Love in vain di Robert Johnson. Keith per nascondere la timidezza si mise a suonare raggomitolato sulla chitarra senza alzare la testa. Dai commenti intuiva qualche apprezzamento. La loro interpretazione sembrava distogliere i clienti dal cibo. Keith provava per la prima volta un benessere che lo aiutava a vincere le sue paure. Alla fine l’applauso convinto, e la richiesta di una seconda canzone, fece sentire entrambi ebbri di felicità.
Il giorno dopo la Vauxhall modello Viva dei Richards si mise in viaggio per Londra con i due giovani eroi del pub del villaggio. L’entusiasmo di Mick e Keith era tale che non riuscivano a preoccuparsi della marcia a rilento dell’auto, un’andatura più consona a un carro funebre che non a un ritorno trionfale. Erano più di sei ore che Bert guidava. Doris pur di sostenerlo moralmente aveva concesso una tregua alla crisi coniugale. Il ritmo dell’auto non poteva essere veloce a causa del motore che andava in ebollizione con una certa facilità. Da quando erano partiti si erano già dovuti fermare otto volte per mettere acqua nel radiatore. Era come se stessero attraversando il deserto del sahara. Dietro i ragazzi tenevano ferme le taniche piene d’acqua che gorgogliavano per i continui scossoni dell’auto. La scorta eccessiva spiegava Bert era resa necessaria dalla scarsità di fontane lungo la strada. Con l’imbrunire quando l’auto si fermò in sosta era difficile persino centrare il bocchettone del radiatore per versare l’acqua. La situazione volgeva al peggio, si stava scaricando anche la batteria e l’auto procedeva pericolosamente nella notte con i fari che occhieggiavano a intermittenza le auto che incrociava. Mai nome fu più infelice da dare a un’auto, la Vauxhall l’aveva fatta grossa chiamando il modello Viva. Al termine di quell’odissea si ritrovarono alle tre del mattino nel vialetto che costeggiava la residenza della famiglia Jagger. Mick smontò dall’auto più piano che poteva per non svegliare i genitori. Si ritrovò però una luce accecante sulla faccia che lo costrinse a ripararsi con il gomito. Era la madre che impugnava la torcia con espressione minacciosa.
<<E’ questa l’ora di tornare a casa?>> chiese Eva Jagger serrando i denti.
<<Hai ragione ma abbiamo avuto un problema con l’auto>> si giustificò Mick.
Doris scese dalla macchina per dare manforte a Mick. Salutò Eva scusandosi per l’accaduto. La preoccupazione aveva esasperato lo stato d’animo di Eva che ripeté a Doris la stessa domanda fatta al figlio. Keith appiccicato al finestrino rideva nel vedere Mick alle prese con la furia della madre. Li vide scomparire in casa. Bert trovò prudente non aggiungere altro rimanendo in silenzio durante il ritorno a casa.
L’episodio costrinse Joe Jagger a meditare una punizione esemplare per il figlio. Non era semplice, Mick era un giovane modello, un brillante studente, inoltre era un figlio che si rimboccava le maniche quando c’era da aiutare. Joe Jagger si limitò solo a raddoppiare gli esercizi di ginnastica della tabella che aveva fatto per il figlio. Non dava tregua a Mick nemmeno quando i suoi compagni Blie Boys dovevano provare a casa da loro. Non era raro che nel pieno di un’appassionata esecuzione di una cover blues, il signor Jagger bussasse interrompendo i ragazzi per chiedere a Mick se si fosse allenato. Quelle sortite erano diventate così frequenti che i ragazzi cancellarono il turno settimanale di prove a casa dei Jagger.
Un giorno Mick annunciò ai genitori che lui e Keith sarebbero andati a Manchester per vedere un festival di musica blues. I Jagger pur di scongiurare l’eventualità che il figlio ripartisse con il catorcio dei Richards, gli concessero che ci andasse con la Herald Triumph di famiglia, a patto che la lavassero sul vialetto della villetta.
I giganti del blues al Free Trade Hall di Manchester pubblicizzavano i manifesti in giro per Londra. La fibrillazione suggerì a Mick, Keith e Dick Taylor di partire in anticipo di due giorni prima. L’evento musicale era anche un pretesto per trascorrere un fine settimana liberi. Avrebbero voluto prendere una stanza in un hotel nei pressi dello storico edificio che avrebbe ospitato il concerto ma i prezzi erano proibitivi anche se avevano fatto cassa comune. Si accontentarono di soggiornare in una casa privata, da una certa Mrs. Clay, a Stockport. Il posto era distante una ventina di miglia da Manchester ma era ben collegata grazie ai mezzi pubblici. Una sistemazione in linea con le loro volenterose ma scarse finanze. La padrona di casa si faceva perdonare l’eccesiva invadenza con delle deliziose crostate di frututta. Roba da far resuscitare i morti, aveva preannunciato un operaio a pensione fissa in una delle stanze della vedova. Il proposito di visitare Manchester riuscì solo in parte a causa della pioggia incessante. Le scarpe di Mick rischiavano di rovinarsi, e nemmeno quelle degli amici se la passavano bene. Per non distruggere le loro calzature migliori acquistarono dei ridicoli stivali di gomma. Erano quelli usati dai pescatori da riva, ma erano gli ultimi modelli disponibili. In compenso la Triumph che li aveva portati a destinazione funzionava bene e aveva un certo seguito sulle ragazze che li vedavano sfrecciare. Per centellinare il carburante la parcheggiarono.
I posti al Trade Hall che erano riusciti a trovare non erano tra i migliori. Mick per ingannare l’attesa raccontò di quando andò a vedere il concerto di Buddy Holly. Considerava i fanatici del blues attempati rispetto a quelli del rock and roll. Quando le luci del teatro cominciarono ad abbassarsi, i venditori di bibite e pop corn conclusero in fretta gli ultimi affari e si schiacciarono contro le pareti della sala riscucchiati dal buio. La scialba presentazione de uno speaker dinoccolato accompagnò l’entrata in scena di John Lee Hooker, salutato da una tiepida accoglienza. Il musicista portava un cappellone con piume d’uccello e indossava un completo bianco ghiaccio che metteva in risalto la sua pelle nerissima. La camicia a fantasie hawaiane attirava le luci dei riflettori come un pannello solare. Il bluesaman emanava l’esotismo del Mississippi. A completare la sua appariscenza degli stivaloni da cowboy con un tacco da otto centimetri. Con aria imbronciata e senza fronzoli John Lee Hooker attaccò subito con Boogie Chillen che scatenò un secondo applauso, ma più convinto. Gli spettatori scattarono in piedi, era come se lo avessero riconosciuto solo in quel momento.
<<Beh Mick non mi sembrano poi tanto attempati come dicevi i fans del blues>> gridò Keith.
<< Cazzo Keith, questo è John Lee Hooker, non uno qualunque>> replicò Mick. Il musicista cantava un brano coinvolgente ma senza armonia. Sembravano monologhi accompagnati da un solo accordo, tanto ripetitivo quanto ipnotico.
Quando fu il turno di Muddy Waters, comparve sul palco con un’insolita strumentazione elettrica. Il pubblico non gradì quella versione inedita e lo subissò di fischi. Senza demordere il bluesman cominciò a suonare il suo repertorio nonostante gli schiamazzi coprissero la musica. Mick, Keith e Dick non si unirono alla protesta. Erano indignati per il trattamento riservato a una leggenda del blues. Keith strattonò alcuni ragazzi che aveva intorno per placarli. Stava per nascere un vero parapiglia, scongiurato da un addetto alla sicurezza che minacciò di cacciare i protagonisti.
Muddy Waters imperterrito continuava a suonare. Alla fine della seconda canzone riuscì a conquistare la platea di puristi che a poco a poco accettarono la sua nuova tendenza.
Music Maker, un giornale specializzato, il giorno seguente intitolò la prima pagina con un emblematico: “il blues si sposta dal Mississippi a Chicago”, a sottolineare la strada intrapresa dal cantautore. Sfogliando le pagine Mick scoprì che era prossimo all’inaugurazione a Londra un nuovo locale per amanti della musica nera.
di Vincenzo Ferone
“Volevano diventare la
migliore rhythm and blues
band di Londra, ma divennero
la più grande rock’n’roll band
di tutti i tempi”
Prima parte
L’età della pietra
1.
Adolescenza
Dartford aveva prospettive davvero avvilenti per la gioventù che ci viveva. Cittadine come quella del Kent sembravano lo specchio della Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale. Gli adulti combattevano la noia nei circoli, dove giocavano a bridge e passavano ore a chiacchierare. Ai ragazzi non rimaneva che godere di quelle ore di libertà dovute all’assenza dei genitori per provare ad assecondare il fantastico mondo interiore che li animava. I danni causati dai bombardamenti avevano costretto il comune a una massiccia edificazione che aveva lasciato poco dei caratteristici borghi antichi medievali. Il centro del paese era costellato dalle caratteristiche costruzioni alte due piani che esprimevano uno stile semplice e gradevole, ma privo di bellezza. Le uniche note colorate in mezzo a quel grigiore, erano le vivaci tinte delle facciate dei negozi. Per ritrovare tracce di architettura georgiana o vittoriana bisognava aggirarsi tra gli edifici di rilevanza storica. L’High Street di Dartford evocava vagamente il far west, e forse era una delle ragioni per cui i ragazzini volevano trasvestirsi tutti da cowboy. Non era raro vedere, durante cruenti e fantomatici mezzogiorni di fuoco, sparatorie a salve che facevano stramazzare sul selciato il piccolo Keith Richards nei panni del cattivo. Quando l’imberbe sceriffo della contea lo catturava trascinandolo verso la gattabuia senza mettergli le manette, lo spietato Keith the Kid preferiva sporcarsi e sorbirsi una ramanzina della madre Doris pur di tenersi sulla testa il cappellone nero a falde larghe. Gli amici sapevano bene che il motivo reale era che voleva tenere ben nascoste le sue grandi orecchie a sventola per evitare di essere chiamato Dumbo. Spettatore interessato dello scontro tra buoni e cattivi era un coetaneo che vendeva gelati con il suo carrettino, si chiamava Michael Jagger, detto Mike. Anche lui si sarebbe unito volentieri ai suoi amichetti ma glielo impedivano il senso per gli affari e l’idea di impolverarsi. Era un ragazzino sorridente, ed era l’unico a non prendere in giro Keith. Non si frequentavano assiduamente ma quando capitava di incontrarsi nel cortile della scuola, o altrove, si fermavano a parlare volentieri, e spesso Mike gli faceva pagare il gelato a un costo inferiore sapendo che Keith viveva nelle case popolari. Spesso si incontravano nella periferica Temple Hill con gli altri ragazzini per giocare a pallone o in mezzo agli scheletri dei palazzi del complesso residenziale che stava sorgendo. Si divertivano un mondo a giocare, non da meno a fantasticare.
<<Secondo te perché diamine chiamano Temple Hill questo posto del cazzo se non c’è un tempio nel raggio di dieci miglia, ma solo una collina? >> chiese Keith
<<Forse una volta c’era, magari lo hanno buttato giù per costruire questi edifici, vallo a sapere >> azzardò Mike mentre si guardava intorno cercando una spiegazione plausibile.
<< Non doveva essere un granchè questo tempio se lo hanno distrutto per fare questo schifo>> replicò Keith. Erano molto diversi ma si piacevano. Mike era chiaro di carnagione, aveva la faccia pulita da bravo ragazzo e una bocca larga piena di denti che lo rendevano buffo. Keith era pallido e magro, con i capelli neri che gli davano l’aspetto torvo. In realtà aveva un carattere tenero e la solitudine accentuava la sua timidezza. Girava con la bici portandosi in tasca Gladys, un criceto, esplorando luoghi che stuzzicavano la sua curiosità. Le scorciatoie per andare a scuola, attraversando la collina, gli avevano fatto scoprire un’umanità diversa da quella che conosceva. Si spostava abilmente tra gli acquitrini e le brughiere disseminate lungo la strada come trappole. Era diventato bravo a non infangarsi, per evitare di arrivare in classe lercio come avveniva i primi tempi. Incontrava spesso vagabondi, fuggiaschi, e anche qualche bandito che rapinava malcapitati forestieri. Le vittime preferite erano gli amanti clandestini perché non potevano denunciare di essere stati derubati. Quelle scene spaventavano Keith ma non riusciva a farne a meno. Quelle emozioni erano le uniche che offriva la città. Talvolta coinvolgeva qualche amico, per condividere l’avventura ma anche per attenuare la paura. I passatempi di Mike invece erano molto più tranquilli. I Jagger per sopperire alla mancanza di una figlia gli avevano sobbarcato mansioni tipicamente femminili, quali lavare i piatti o andare nei negozi a comprare quello che mancava in casa. Come se non bastasse a Mike era capitato un padre istruttore di ginnastica, ed era obbligato a un continuo esercizio fisico nel giardino della villetta a schiera attrezzata come una vera palestra. I vicini vedevano spesso il ragazzo arrampicarsi sulle corde insieme al fratello minore. A Mike seccava solo che le ragazze lo chiamavano piccolo Tarzan, ma non si lamentava e non creava mai problemi, soprattutto con lo studio. Eccelleva in quasi tutte le materie ed era educato, ragion per cui gli insegnanti chiudevano un occhio sulle sue frequenti imitazioni che prendevano di mira proprio il corpo docente.
La solitudine attanagliava Keith come in una morsa. La madre Doris ne era consapevole ma il bisogno la costringeva a passare molto tempo fuori casa per lavoro. Cercava di rimediare assecondando i capricci del figlio, compreso quello di andare a trovare spesso il nonno Gus. Era un tipo strano ma Keith adorava passeggiare con lui. Gli insegnava un sacco di cose senza farlo annoiare. Il vecchio Gus aveva carattere, e anche quel pizzico di follia che gli aveva permesso di sopravvivere in una famiglia composta da sole donne. Era un nonno intelligente e un abile suonatore di chitarra. Ne aveva una appesa nel salone di casa come se fosse un’opera di Duchamp. Keith l’ammirava con la serietà di un visitatore a un museo. A volte non resisteva alla tentazione di prenderla e strimpellava qualche corda. Non lo sapeva ma era caduto nel tranello del nonno, che da uomo di mondo, dimostrava di saperci fare anche come educatore riuscendo a stuzzicare la curiosità del nipote. Caduto quel tabu, Keith prese coraggio e chiese di imparare le prime basi della chitarra acustica. La prima lezione consisteva nell’ascolto di un classico del Flamenco, la Malaguena.
<<Se imparerai a suonare questa- diceva al nipote mentre eseguiva l’accordo - potrai suonare qualsiasi cosa>> diceva il vecchio. Una promessa che scatenava quel sorriso timido che faceva apparire Keith persino carino. Ci provava a suonare nonostante la chitarra fosse ingombrante e le dita gli facessero male a furia di provare ad artigliare quei cordoni elastici e metallici per apprendere l’arpeggio. A volte Keith era sul punto di rinunciare, il nonno però non gli dava tregua. Gli ricordava sempre che le ragazze sarebbero cadute ai suoi piedi quando sarebbe diventato un chitarrista .
<<Per quale motivo credi che abbia imparato a suonare il trombone,l’arpa, la chitarra e chissà se dimentico ancora qualcosa. Eh,me lo dici?>> chiedeva nonno Gus con un sorrisetto mefistofelico .
<<Dammela, lasciami riprovarci>> lo implorava rassegnato Keith. Riprendeva lo strumento che gli ricopriva il torace e ci metteva maggiore impegno. Il vecchio se la spassava e rincarava la dose.
<<E’ proprio così figliolo, ti cadranno ai piedi le pollastrelle, e poi ti dirò, hai anche l’aspetto del suonatore di flamenco: occhi scuri e profondi, magro e affamato, vedrai >>sogghignava il nonno.
Keith premiava la solerzia del suo Faust del Kent riuscendo, a furia di esercitarsi, a cavare dallo strumento un suono che cominciava a rasentare una melodia. La chitarra era diventata la sua dolce ossessione. Non si accontentava più di suonarla sporadicamente, quando andava da nonno Gus, ne voleva una tutta per sé. Doris avrebbe voluto accontentare il figlio ma le ristrettezze economiche non avevano cuore. Il marito Bert si spezzava la schiena facendo il pendolare tra Dartford e Londra per andare a lavorare come commesso in un grande magazzino di elettrodomestici. Il senso di colpa verso il figlio spinse Bert a regalargli una delle radio che vendeva ai clienti. Cercava di colmare le lacune come padre, e a compensare la sua scarsa propensione alla loquacità, soprattutto quando si trattava di relazionarsi al ragazzo, come chiamava solitamente Keith. Quella radio con l’antenna non catturava l’interessare di Keith. Si giustificava con i genitori lamentando che l’antenna era troppo lunga e si impigliava nei lampadari e nelle tende quando cercava la frequenza. Una notte insonne però lo costrinse a riprenderla per tentare di farla funzionare. La radio più che trasmettere musica sembrava gracchiare. Le stazioni radio erano di gran lunga inferiori al numero dei radioamatori che vanificavano i suoi sforzi . Quei sconosciuti che navigavano via etere nelle ore piccole parlavano solo di sciocchezze. A poco a poco quell’avvolgimento vorticoso della manopola della radio con cui Keith rallentava e accelerava come se dovesse trovare la combinazione giusta per aprire una cassaforte, funzionò davvero e mostrò un vero tesoro nascosto: Heartbreak Hotel.
<<L’ha cantata per voi Elvis Presley da Tupelo, Mississippi>> ripeté un paio di volte l’annunciatrice di Radio Luxembourg. Per Keith fu un’autentica folgorazione, il segnale, la scossa, svegliandolo da una sorta di torpore letargico. L’ultima volta che un’energia simile fu avvertita in quella casa fu durante un bombardamento della Lutwaffe. Bert Richards e Doris Dupree erano così travolti dalla passione quella volta che anziché mettersi in salvo scappando nel rifugio detonarono una serie di embrioni da cui sarebbe nato il loro primo e unico figlio. Elvis, l’affascinante demiurgo del Mississippi aveva però intenzioni diverse rispetto al disegno di morte pianificato dall’orco viennese. Presley si era edotto ascoltando i pionieri del Delta Blues evolvendo uno stile che era nell’aria, non aveva travisato i testi filosofici di Nietzsche come aveva fatto il famigerato Adolf. Il rock’n’roll spezzò le catene che imprigionavano i giovani che per la prima volta si rendevano conto della carica eversiva della propria generazione. Keith scoprì la musica e con essa iniziò la sua rivoluzione adolescenziale. Comprava più dischi che poteva, e se mamma Doris non elargiva abbastanza soldi per soddisfare la sua ingordigia di vinile, Keith non esitava a derubarla, attingendo alla morale di Robin Hood che gli suggeriva di nutrire lo spirito povero dentro se stesso. L’ultima e perentoria richiesta di Keith fu una chitarra. L’aveva adocchiata in una vetrina di un negozio di strumenti in centro. Doris non si faceva mettere i piedi in testa ma non riusciva a non viziare Keith, anche se sapeva di trasagredire i dettami educativi che lei e Bert avevano ratificato. Doris non aveva danaro a sufficienza per accontentare il figlio ma era toccata dal fatto che passasse sempre più tempo da nonno Gus per suonare la sua chitarra. Doris riuscì a trovare un prestanome per ottenere un finanziamento rateale che le permise di acquistare una chitarra Rossetti. Keith ne fu così felice che ci dormiva. Si esercitava molte ore al giorno migliorando visibilmente la tecnica. Quando tornava a casa Doris lo sentiva suonare e si riempiva di orgoglio. Keith era diventato un jukebox domestico, pronto ad accontentare le richieste della madre, la sua prima spettatrice nonché la sua critica più severa.
Il cambiamento culturale aveva coinvolto anche Mike. Con la pubertà aveva assunto quell’aspetto sornione che avevano i felini nei i primi anni di vita. Appariva come un giovane goffo e fuori dal comune. Aveva un fascino latente ma vagamente femmineo, o forse troppo diverso per i canoni estetici fine anni cinquanta. Dopo la sua prima e infantile attività di gelataio, Mike continuò a darsi da fare per rimpinguare la risicata paghetta di papà Joe. La crescita non gli aveva fatto perdere il senso degli affari, e spesso univa l’utile al dilettevole. Grazie al suo lavoro all’ufficio postale del paese riusciva a fare grossi ordinativi di dischi a una casa discografiica di Chicago, la Chess Records. Controllava personalmente i plichi che arrivano dagli Stati Uniti. Il blues era il suo genere preferito, ma non gli dispiaceva nemmeno il rock’n’roll che andava per la maggiore. Il contenuto lascivo delle canzoni di Robert Johnson e Muddy Waters svezzavano, in un certo senso, il suo istinto predatorio. I testi cantati dai bluesman con maliziose licenze erano fonte di apprendimento. Little my red rooster e Dust my broom erano delle allusioni irresistibili. In realtà tutto il repertorio blues trasudava simili esperienze, che i loro cantori avevano vissuto in prima persona, mentre il rock’n’roll descriveva,dopotutto,bravate di ragazzi alle prime armi. Situazioni che vedevano spesso adolescenti alle prese con i primi approcci amorosi sull’automobile rubata al padre. Problematiche innocentemente borghesi. Il blues aveva invece radici diverse, irrorate con il sudore del lavoro nei campi di cotone e dal sangue che talvolta gli schiavi dovevano versare per essersi macchiati del crimine di avere la pelle nera. L’esistenza dei bluesman era intrisa dei retaggi di quell’humus che quasi sempre li rendeva dei personaggi maledetti, che non riuscivano a scrollarsi di dosso un destino di sofferenza. Il rock di rivoluzionario aveva il ritmo e un pubblico che poteva permettersi di andare a vedere i loro concerti e a comprare i dischi. Il blues nasceva nei campi durante il lavoro massacrante e veniva apprezzato inizialmente nei Juke joint, unici luoghi di ritrovo dove era permesso anche alle persone di colore di bere e divertirsi. Con il tempo però anche il blues cominciava a essere risarcito moralmente ed economicamente, e fu grazie al rock.
Il giovane Jagger salutò il primo successo sessuale in una casa di igiene mentale dove affondò il suo fascino acerbo su una matura e generosa infermiera di Birmingham. Dopo quella torrida estate trascorsa nel manicomio comunale, seguirono altre vittime, più o meno innocenti. Mike non era turbato dall’essere circondato da personalità disturbate, soprattutto se si trattava di pazienti belle. Quel gradimento non sfuggì al bigotto direttore del centro che, senza dare scandalo, eliminò il volenteroso Jagger dalla lista dei ragazzi che lavoravano come portantini nei periodi in cui nella casa di cura scarseggiava il personale. Quando Eva Jagger venne a conoscenza di quella storiaccia che riguardava il suo Mike , evitò di dirlo al marito per non urtare la sua sensibilità. Eva era più abituata alle pulsioni sessuali del figlio, sin da quando lo scoprì tredicenne portare a casa le ragazzine in loro assenza. Mike faceva indossare alle amichette la biancheria intima che Eva vendeva alle signore di Dartford. La sua tattica consisteva nel barattare reggiseni e mutandine con baci sulla bocca e palpeggiamenti. Ma il peggio doveva ancora arivare per Eva. Una volta infatti sorprese Mike stesso indossare l’intimo mentre si ammirava davanti a uno specchio. Non fece menzione nemmeno di questo al marito Joe, ma ne parlò con uno psichiatra che la rassicurò a riguardo. Il luminare addusse l’accaduto alla curiosità sessuale tipica di quella fase adolescenziale. Intuendo i timori della signora Jagger sull’identità sessuale del figlio, specificò che quel travestimento era un palese episodio esplorativo del figlio per conoscere l’oggetto del desiderio. A riprova lo testimoniavano le sue mire.
In Inghilterra per oltre un decennio ogni giorno era stato come il precedente, e in tutte le persone c’era la consapevolezza che il domani sarebbe stato lo stesso. C’era stata una lenta e dolorosa ripresa economica dopo il secondo conflitto mondiale ma il paese, forte di una cultura conservatrice, resisteva in modo naturale alle insidie rappresentate dal cambiamento epocale, soffocando la gioventù con un perbenismo strisciante. Quell’isolamento endemico non aveva tenuto conto che le note musicali viaggiavano libere nell’aria a velocità della luce e non incontravano resistenza. I ragazzi erano cambiati e rivendicavano uno spazio che neppure l’autorità genitoriale poteva negargli.